Che le piante, la terra, il mare, le montagne, i corsi d’acqua e le polle sorgive contengano uno spirito ‘abitante’ è un concetto alla base delle più antiche forme religiose, quelle animistiche. Tutte le correnti filosofiche, artistiche e letterarie che hanno posto al centro della loro riflessione il sentimento della natura e lo spirito romantico variamente definito con i termini di sublime, pittoresco, sturm und drang, e altri ancora, non hanno fatto altro che riferirsi sempre all’animismo primordiale. Un fondo di pensiero animistico è presente in parte in tutti noi: quante volte abbiamo pensato che un luogo fisico potesse conservare la memoria del passato, o che una pianta potesse rivelarci il proprio stato di benessere attraverso messaggi espliciti come la rigogliosità del fogliame o l’abbondanza dei fiori e dei frutti. Anche le cose, talvolta, sembrano celare un aspetto vitale: il magismo primario, non a caso, trasferisce sugli oggetti proprietà e peculiarità degli esseri umani, secondo un principio di analogia che accomuna ogni cosa del mondo visibile. Pierluigi Isola è un artista che possiede il dono raro di riuscire a cogliere l’aspetto animistico della natura nella sua versione ‘idilliaca’ e di sapercelo comunicare in modo intenso ma leggero, con mercuriale disinvoltura e continui rimandi a una conoscenza di carattere iniziatico.
Dalla prima produzione dell’artista relativa agli anni Novanta emerge infatti un simbolismo esoterico racchiuso nelle forme degli oggetti quotidiani e della categoria visiva del rebus, appunto. Per anni Isola ha raccontato la vita segreta degli oggetti nei suoi quadri “rebus”: nature morte con allusioni sottilmente enigmatiche, non improntate a una soluzione, ma a restare celate, tra le cose, appunto.
Dai rebus l’esercizio pittorico di Pierluigi Isola si è spostato verso la ricerca di un senso contemporaneo nel genere del paesaggio. Di questo paesaggio, bucolico e urbano, ancorché echeggiante maniere antiche, Isola è diventato l’interprete più sensibile e attento, non solo da un punto di vista meramente visivo ma, soprattutto, per quello che si trova celato dentro le apparenze. Le piante, gli alberi, i ponti, le strade deserte, i palazzi immersi nella luce ialina del tardo pomeriggio, tutto concorre nel suo mondo dorato, è davvero il caso di dirlo, a costruire un repertorio iconografico assoluto, apparentemente sospeso in una zona senza tempo. L’atmosfera arcadica dei Concerti campestri rinascimentali e degli Idilli settecenteschi riappare per una sorta di miracolo spazio-temporale nei paesaggi urbani romani, priva di ogni riferimento al grigiore e al caos delle strade del centro storico, che nelle opere di Isola è trasposto in una sorta di doppio speculare del mondo reale. In questo luogo fuori del tempo, che pure mantiene forme conosciute, personaggi enigmatici come il moderno Talete “armato” di regola ci mostrano che tutto è in sintonia, gli alberi come gli edifici, le foglie come le membra del corpo umano, le facciate degli edifici come le pagine di un libro. Tutto vive della medesima proporzione e tutto si muove secondo un ritmo armonico. Ecco, forse Isola è uno di quegli artisti che a ragione potrebbe affermare di aver visitato con il pensiero il mondo oltre il visibile e di avercene riportato, dipingendo, un esempio. Le opere in mostra, realizzate con meticoloso rigore, sembrano inneggiare a un’anima viva racchiusa dentro gli alberi e le vestigia del passato, trattenuta a stento dal movimento delle foglie e testimone di un passato millenario che giace ancora vibrante sotto le stratificazioni di terra e cemento della Capitale.
Ai margini del raccordo anulare di Roma e lungo le traverse delle vie consolari maggiori, troviamo una vegetazione varia e discontinua, frammista alle brutte case abusive e agli agglomerati suburbani che nulla hanno in comune con la monumentalità del centro storico o con la bellezza dell’euritmia architettonica. In questi luoghi, abbandonati dagli dèi e lasciati alla mercé di qualche spregiudicato costruttore, i monumentali alberi dipinti da Pierluigi Isola sembrano gli unici testimoni di una bellezza senza tempo, secolari e immutati dalla notte dei tempi. Pini, pioppi, olmi maestosi, eucalipti fragranti, lambiti dalla luce dorata del tramonto, sono i messaggeri di una città che sta per comparire all’orizzonte, enorme e disordinata, polverosa e grigia. Uno dei dipinti in mostra porta il titolo emblematico di “Verso la città”: un grande albero, come un alfiere guardiano della porta, quasi a custodire il confine segreto tra visibile e invisibile, annuncia l’apparire delle case periferiche in lontananza e assiste alla corsa moderna dell’umanità verso la città. Sono paesaggi pre-urbani, posseduti da uno spirito eterno che non ha mai abbandonato templi e rovine, e che ha silenziosamente governato l’avvicendarsi di culti e divinità di cui si è ormai persa anche la memoria ma che, secondo le parole dell’artista, riemergono a tratti da un barlume di un anfratto, dal rumore del vento tra i pini marittimi, quasi a ribadire giocosamente la propria immortalità.
Oggi potremmo chiederci, dopo secoli ormai di non-pittura e di sperimentazioni ardite sui linguaggi più disparati e sulle tecnologie avanzate, quale sia la ragione del successo di un artista come Isola e perché riusciamo ancora a raccordarci con le sue vibrazioni interne. I suoi dipinti dialogano apertamente con la felice stagione del tardo Ottocento romantico e con la cifra inquieta del simbolismo tedesco, ma di quella inquietudine molto si è perso lungo la strada: resta solo una luce avvolgente che ci trasporta verso un luogo in cui l’aria è ancora respirabile, ai tempi in cui Böcklin e Corot riuscivano a sentire forte il profumo delle piante e a condividere la grandeur del paesaggio, quando la forza della natura si imponeva drammaticamente con tutto il suo potere seduttivo su quelle anime in grado di tradurre la lingua delle cose viventi. Da allora, da Giorgione a Gainsborough, dai Deutsch Römer a Barbizon, da Turner a Vespignani e Guccione, passando per le scuole romane, fino ad arrivare ai contemporanei ‘paesaggisti urbani’, il sentimento della natura non ha mai davvero abbandonato le nostre corde, ed è forse questo il motivo che ancora ci avvicina e ci fa riconoscere come familiare la pittura di Isola che, come un Ermes contemporaneo, è il viandante che con sottile arguzia ci sussurra: “Et in Arcadia Ego”.
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Ho visto per la prima volta le immagini dipinte da Isola in grandi fotografie, custodite dentro una scatola rivestita di tela nera. Ho lasciato che mi scorressero sotto gli occhi una dopo l’altra lentamente, e poi le ho conservate a lungo nel mio studio, dove potevo tornare spesso a guardarle. Sempre di più, guardandole, mi sembravano inattuali, provenienti da luoghi dell’anima indifferenti allo scorrere del tempo, alla gloria del presente. L’impressione iniziale, che quelle immagini fossero una rassicurante rappresentazione di oggetti visibili, subito aveva ceduto il passo al sentimento di una loro perturbante estraneità: no, non di una rappresentazione si trattava, non si era ricondotti sul palcoscenico della vita quotidiana, non c’era in esse alcuna nostalgia di luoghi e cose vissuti, non vi era distillato lo studio di un evento identificabile. Quelle immagini assomigliavano piuttosto al frutto del silenzioso lavoro che il sogno svolge di notte, quando compone i resti diurni, i frammenti e i brividi del tempo in forme, gesti, azioni, che non hanno una funzione rappresentativa, non rimandano ad altro che non sia il loro misterioso senso interiore.
Il senso del sogno oltrepassa la coscienza diurna, perché le sue radici affondano in un luogo dove è riposto il senso originario dei singoli eventi, in una memoria che precede ogni espressione della vita: e in virtù di quella memoria, quando si sono spenti e hanno lasciato il tempo, gli eventi tornano alla vita in altra forma, come un seme nascosto che la morte abbia denudato e soltanto ora cominci a fiorire. La loro semplice rappresentazione è destinata a rimanere di qua, in un tempo che ancora ignora la propria morte, perché la rappresentazione è come una scimmia, che imita la realtà cogliendone soltanto l’apparenza immediata, frammentaria, e non l’oscuro destino; mentre quello che rimane e lentamente appare, quando la morte abbia macerato l’involucro scabro o sontuoso dell’apparenza, è una presenza ulteriore, che s’impone per una vita propria, indipendente dal tempo.
Quando mi trovai finalmente di fronte ad alcuni quadri di Isola, la presenza delle immagini mi apparve in essi ancora più evidente e perentoria, e non soltanto per la loro dimensione; infatti adesso si aggiungeva, a dare corpo all’immagine, la particolare sensuosità della materia pittorica. E diveniva pienamente evidente la passione orfica che anima la pittura, il suo richiamare dal regno dei morti le creature del tempo per trattenersi ancora con esse, in quel perturbante spazio intermedio dove sono e non sono, dove la morte è avvenuta, ma non l’oblio della vita. Così la pittura arriva ad assolvere ritualmente il compito di tenere congiunti visibile e invisibile, all’interno di uno spazio separato, sacro, estraniato da quanto lo circonda. […]
FRANCESCO DONFRANCESCO
Pierluigi Isola, Collana “Ritratti d’artista”, Moretti & Vitali, Bergamo, 1999
[…] In queste prime opere si avverte lo sforzo di rendere le immagini il più possibile verosimili, con un’attenzione quasi fotografica alla resa dei particolari. Sulle superfici nitide dei singoli elementi compositivi batte sempre una luce solare metafisica che ne descrive minuziosamente i volumi, ma nel contempo invita a superare la realtà delle forme andando oltre la semplice apparenza. […] Prendendo le distanze dalla consuetudine che porta molti artisti contemporanei a ricercare l’essenzialità, eliminando e depurando le immagini da quanto appare superfluo, in questa fase, e fino agli anni 1995-1996, Isola sente il bisogno di accumulare, o come afferma lui stesso di ‘contaminare’, sovrapponendo immagini, sensazioni, ricordi. […] Un nuovo sentimento traspare da queste ultime opere: Isola sembra avviarsi verso un processo di semplificazione compositiva, dettato dall’acquisizione di una maggiore libertà di forme e contenuti. Gli spazi vuoti concorrono alla costruzione della composizione al pari degli elementi in essa presenti. L’oggetto rappresentato, pur mantenendo la sua valenza fortemente simbolica, nasce dall’esigenza di aderire meno alla ragione e più all’istinto. Anche la materia della sua pittura aderisce a questo principio. Le superfici si fanno meno nitide, più incerte, e lasciano in parte all’intuizione il compito di svelarle.
CINZIA VIRNO
Pierluigi Isola, Collana “Ritratti d’artista”, Moretti & Vitali, Bergamo, 1999
[…] Ed è ciò che ancora oggi meraviglia nei suoi quadri che attirano lo sguardo, dal dettaglio all’insieme, per progressivi assorbimenti di intensità emotiva, come una materia porosa si imbeve pian piano di un liquido che assorbe. Isola infatti non racconta, o dipinge, per sorprendere l’osservatore. Egli sorprende prima di tutto se stesso, tessendo man mano la tela delle immagini, tanto è vero che impegna gran parte della emotività nel mettere in evidenza il procedimento stesso della espressione. Una pittura meticolosa, trapunta col fiato, piena di diligenze e impeccabili torniture delle congiunzioni formali, diventa occasione per trasformare l’esperienza vissuta in sogno ad occhi aperti, o fantasia operante. […] Il soliloquio pittorico intona la rappresentazione di un sogno coloristico estremamente sintetico che imprime alla visione la sostanza respirante di un luminoso plein air in una calma strana e silenziosa. Non è il disegno, ma la fattura pittorica che governa l’immagine ed esprime il nucleo essenziale della intenzione poetica di Isola. Un dèmone romantico si annida tra i cieli puliti, le atmosfere rarefatte, l’oro di un filtro ottico che annuncia mattine soleggiate sui ponti di Roma, o per le anse tiberine protette dal dorso alberato di irsuti rilievi nella campagna circostante. Pittore meditativo per eccellenza e cacciatore arguto della luce istantanea di una eco interiore, Isola ridisegna un paesaggio mentale rielaborando un denso patrimonio di impressioni visive: ne risulta un singolare esempio stilistico di “Corot sur nature” che cerca la poesia della pittura ben oltre la limitazione del vero. […] Quale esistenza mancata e quale stramberia potrebbero spingere il pittore a correre in questo modo contro il tempo corrente, componendo madrigali tanto rifiniti e preziosi da non poter essere cantati se non con un filo ipersensibile di voce? Ciò che permane è il sottofondo psicologico di una tenace e coraggiosa vocazione alla vita d’artista e allo stile (“sola morale dell’arte”) che veramente suona quale gesto di sfida in un’epoca come la nostra che – già notava un poeta francese alla fine dell’ottocento – continua a sopravvivere “alla morte della Bellezza”. Di questa sfida, combattuta coi mezzi puri dell’arte, la pittura di Isola è un esempio eloquente per il brivido di meraviglia che tramanda come se nel paesaggio assoluto del quadro si potesse contenere l’intera esperienza del mondo.
DUCCIO TROMBADORI
Isola, Galleria Falteri, Catalogo della mostra, Firenze, 2001
Il colore della luce è la prima impressione che le immagini di Pierluigi Isola trasmettono in modo immediato e sensitivo, prima ancora che se ne percepisca il disegno concettuale. Persino quando tale disegno si fa talmente terso e purificato da sembrare voler essere freddo, anche qui la simulazione della realtà specchiata, oggettiva, si vela di una patina in cui prevale il calore dell’oro o il richiamo alla sua religiosa ricchezza (quella che faceva da sfondo alle figure delle antiche chiese prima di farsi cornice e separare così la pittura dall’architettura). […] A me pare che Isola si sia reso conto o semplicemente non possa – per come “è fatto” – non render conto del fatto che è caduta ogni possibilità di ricordare l’Antico (e dunque la città di Roma di cui ritrae molto spesso edifici e paesaggi, ma anche il suo frequente richiamo diretto o indiretto alla Melencolia di Dürer o ai dispositivi alchemici). Quelle possibilità – maturate durante il processo che dal moderno arriva sino al post-moderno – non possono più avere un motivo in sé. Tutto l’incanto degli oggetti, dei luoghi e dei reperti viene infatti ottenuto da Isola attraverso il disincanto di un’altra motivazione. In lui, anzi nella sua natura e nella natura delle sue immagini, non vi è alcuna esibizione di retoriche che pretendano di riscoprire il mondo presente giocando tra quotidianità e autorità delle arti. Ma allora, da dove viene l’effetto di felicità e di armonia che la sua messa in scena produce, immancabilmente, in noi? Io credo che sia la sola e semplice professione del suo mestiere di pittore. Isola ha per padre un artista, Giancarlo, e comincia a fare l’artista a undici anni, studia per fare l’artista, diventa artista e insegna arte: il suo occhi, la sua mano, il suo mondo, la sua mente nascono, crescono e maturano all’unisono con le tecniche di pittura. Legami familiari e vocazionali e sociali fanno dunque tutt’uno con l’apprendimento, l’esercizio e l’applicazione di tecniche. Anche la memoria dell’arte dipende da questa educazione e esperienza tecnica, passa per i materiali e gli strumenti che servono a creare immagini. Anche il suo corpo. La sua identità psico-fisica, intellettuale e emotiva. Ecco le ragioni per cui, in Pierluigi, i prodotti del suo lavoro – ciò che di se stesso vi comunica e che ciò a noi appare – non fa appello alla memoria del passato, ma è l’esistenza di un mestiere, di una tecnica, che si ricorda di sé. […] Lo spettatore, di fronte al risultato di questi automatismi (altra ragione per giustificare la componente surrealista di Isola), vede proprio la presenza – all’inizio si è detta patina dorata – del medium che li ha resi possibili: l’estremo desiderio dell’artista di spingersi oltre l’arte che incarna. Ed è dunque, proprio qui – nel margine esile e insieme immenso, che divide l’oggettività della tecnica dal suo oltrepassamento soggettivo – la disperata condizione in cui si tradisce la serenità apollinea di questo autore. […]
ALBERTO ABRUZZESE
Pierluigi Isola. La memoria dipinta, Galleria Falteri, Catalogo della mostra, Firenze, 2003
Il mio primo incontro con i lavori di Pierluigi Isola risale al 2001 in occasione della mostra alla Galleria Falteri […] “Veduta di rovine romane a Osta Antica” dipinto nell’aprile 1988 dominava la mostra. Lo sfondo, dove le ampie forme di un muro di mattoni sgretolati nella calda luce del sole, tendeva all’astrattismo. Il punto focale della composizione, nel medio piano – colonne di marmo troncate nei pressi delle rovine di un arco di mattoni sullo sfondo di una pineta – era, per contrasto, reso con straordinaria luminosità ed accuratezza. Inoltre il dipinto era attraente anche come oggetto, la semplice cornice di pino grezzo era il perfetto complemento alla rugosità del pannello su cui era dipinto il paesaggio. Ne rimasi colpito e non ci volle molto per decidere di acquistarlo […] Perché questo dipinto esercitava su di me tanto fascino? Da una parte il suo soggetto senza tempo incarnava una consolidata tradizione, dall’altra la sua freschezza di esecuzione lo ricollocava esattamente nel suo tempo. Fin dal Rinascimento, la bellezza e la varietà della campagna italiana sono state fonti significative di ispirazione per i pittori europei. […] Due secoli più tardi la Pittura di Paesaggio come una “finestra sulla natura” si sviluppò in un genere autonomo. Fu allora che il paesaggio italiano venne assunto come archetipo dell’idillio classico, con i grandi Poussin e Claude, migliori interpreti di questa concezione.
Intorno al 1800 l’apprezzamento per la grandeur del paesaggio italiano iniziò a cambiare in virtù di una concezione più pratica e scientifica della natura stessa. Questa nuova sensibilità si accoppiava al crescente interesse alla tecnica del’artista, alla sua pratica pittorica, al suo peculiare senso del colore e al suo personale impianto compositivo nella scena all’aperto (piuttosto che alla sua capacità nel ripetere formule mutuate dai grandi maestri). L’Italia divenne così il crocevia di un nuovo movimento di pittori en plein air. Artisti di fama internazionale come Valenciennes, Thomas Jones e Michallon furono i principali esponenti di questo movimento che culminò con Jean Baptiste Corot, che portò la pittura di paesaggio dal vero fino alla soglia dell’impressionismo.
Folgorati dall’apparizione di un motivo colto in un momento particolare del giorno, gli artisti dipingevano sul posto, catturando la luce brillante del sole e le dure ombre che danno vita alle forme naturali e allo stesso tempo cogliendo quelle rare aree di colore vivo che danno vita al soggetto. […] Non potendomi permettere i lavori degli illustri maestri del 18° e 19° secolo, quali Bidauld, Boldini, Camuccini, Closson, Corot o altri, ma ciò nonostante ammirando l’estetica delle loro opere, è stato automatico il passo di scegliere un esempio di uno dei loro successori il cui lavoro pare a me collocarsi proprio in quella discendenza. […]
NICHOLAS TURNER
Pierluigi Isola. Terre d’ombra, Galleria Falteri, Catalogo della mostra, 2007
[…] Nel corso di questi lunghi anni non sono mancate occasioni di incontrare il tuo lavoro (a volte solo in riproduzione) riproponendomi ogni volta la tua immagine di ragazzo e insieme la certezza che non poteva essere altrimenti, data la qualità percepita nelle opere. La pittura come destino, dunque, ha messo in campo ancora una volta le prerogative necessarie, psichiche e morali, per manifestarsi. […] D’altra parte se è vero che l’arte è “una menzogna che si maschera da verità” è pur vero che essa rappresenta nel modo più complesso (e sublime) il regno dell’ambiguità dentro il quale ogni genere di sperimentazione si fa reale.
Così, nella contemplazione delle cose, siano oggetti, figure o paesaggi che popolano i tuoi quadri, oltre alla sapienza esecutiva, appare evidente un tuo nutrito, felice percorso in quella tradizione che non ha mai perso di vista la pulsione e il sogno della bellezza, allineandosi in tal modo, giustamente, a quanto menzionato prima su verità e ambiguità.
A me pare che è proprio nel solco e nella ineluttabile assolutezza di questi misteri che il tuo lavoro fonda la sua necessità, la sua luminosa esistenza per raccontare e cantare le meraviglie del mondo, nonostante tutto, che sorprendono ancora il nostro sguardo. […]
PIERO GUCCIONE
Lettera all’artista, Scicli, 2007
[…] Nato in anni in cui tutto cambia velocemente e tutto viene velocemente consumato, Isola percorre strade apparentemente appartate, studia e riscopre tecniche antiche, come la tempera all’uovo su tavola.
La sua formazione avviene in un liceo artistico romano, studente timido e silenzioso nel corso di Piero Guccione, artista che gli trasmette, oltre agli insegnamenti della tecnica pittorica, quella particolare capacità di rapportarsi alla realtà cogliendone l’aspetto più intimo e segreto. […] I lavori più recenti affrontano con crescente intensità la rappresentazione di paesaggi e vedute urbane, in perfetta continuità di ricerca, secondo quanto egli stesso dichiara: “Non faccio differenza tra un grande albero e un imponente edificio, che sono per me presenze vive. Penso che così come una foresta si rigenera, spesso in modi imprevedibili, anche nella città si attua una continua trasformazione, creando scorci che non sempre l’architettura ha potuto prevedere.”
Per Isola, c’è un elemento monumentale nella rappresentazione del paesaggio urbano ed extraurbano. Determinati alberi o edifici diventano presenze che hanno una storia, una loro vita silente che può essere percepita. […] Studiare ed approfondire le tecniche antiche ha comportato per l’artista una riflessione costante sulle radici della nostra cultura artistica. Lo studio delle icone, affrontato sia da un punto di vista tecnico che teorico, lo ha portato a consolidare un particolare modus operandi: dare forma a ciò che non possiamo vedere, ma che conta altrettanto e più di ciò che è immediatamente visibile.
Un aspetto interessante in questo processo creativo è la condizione di ricettività. L’elaborazione avviene a partire da una predisposizione all’ascolto: “Lascio che le cose parlino con la loro voce. Il mio è uno sguardo libero da preconcetti, se si tratta di un paesaggio urbano, accolgo le inevitabili stratificazioni che procedono dalle precedenti raffigurazioni. Lo stesso avviene quando cerco di raffigurare la natura: è il luogo che mi suggerisce le soluzioni, perché contiene immagini che affiorano. La mia concentrazione è tutta tesa a non ostacolare questo processo. Inizialmente, c’è solo un libero dialogo con l’immaginazione e la memoria. L’organizzazione razionale avviene in una fase successiva.”
GABRIELLA PACE
Tratto da: Pierluigi Isola: Biografia e invenzione. La nuova Pianta della Civitas Vaticana, in “Civitas Vaticana. La nuova Pianta della Città del Vaticano”, a cura di Barbara Jatta, Città del Vaticano, BAV, 2007
Pierluigi Isola non vive nel nostro tempo, vive in Arcadia; ma tutta la sua natura è senza tempo e, soprattutto, senza storia. È una natura dell’anima e, come tale, è stata intesa da James Hillman che, tra gli artisti italiani, conosce e ama, a ragion veduta, proprio Isola. Isola attrae per una lenta meditazione sulla natura e anche sulla solitudine dell’uomo. La sua idea, nei dipinti che vediamo ora, è di definire il rapporto fra l’uomo e gli spazi urbani in una irredimibile condizione di solitudine.
Lirico, Isola dipinge stati d’animo ma mai nelle condizioni d’inquetudine e di angoscia; bensì di appagamento, di pienezza, nell’ultima e non perduta età dell’oro. Isola ricerca un ordine del mondo, imperturbabile e inalterabile: i suoi riferimenti sono nella dimenticata pittura di Riccardo Francalancia e Francesco Trombadori, maestri di una scuola romana che non può dirsi conclusa. Isola dipinge estasi e anche gli stadi di perfezioni successive per raggiungerle. Una pittura di ascesi, di meditazioni interiori davanti alla natura in una perpetua riproposizione degli idillii leopardiani, in particolare dell’Infinito. Davanti alla natura, Isola, come Leopardi, vede dentro di sé, e quello ci dice; e quello stato d’animo ci trasmette.
VITTORIO SGARBI
Isola e Cézanne, Museo del Paesaggio, Salemi, 2011
La luce distende il suo gioco caleidoscopico sulla superficie piana dell’acqua di un canale, inonda un campo, maturando nell’abbagliante luccichio tremulo dell’opprimente calura meridiana, lascia risplendere la facciata marmorea di San Pietro nelle tonalità dorate della sera… luce del sud.
La luce dell’Italia domina sempre, caratterizza e identifica i paesaggi e le vedute urbane del pittore romano Pierluigi Isola. […] Isola sviluppa assai presto il suo sentire artistico e il suo modus operandi sempre caratterizzato da una costante meditazione, da una totale concentrazione nell’osservazione del mondo. È nell’esercizio di questa facoltà che l’artista sposta continuamente la prospettiva tra la realtà sensibile e il proprio personalissimo mondo immaginale.
Il tema del guardare è comunque sempre centrale, lo sguardo che accoglie il mondo, lo restituisce pieno di meraviglia e di rispetto.
Sia l’aspetto del guardare che anche la concezione della reciprocità tra l’osservatore e il suo oggetto, richiamano per analogia uno dei temi fondanti della pittura romantica. Ciò che si richiedeva all’artista del romanticismo tedesco era uno sguardo che contemplasse un duplice aspetto. Tanto l’ambiente circostante quanto lo stato d’animo più intimo dovevano essere mediati e ricomporsi nell’operare artistico. Sempre nell’alterno gioco tra riflesso e proiezione, tra anima e natura.
Uno sguardo così ricco di rimandi interiori ed esteriori, in perpetuo scambio psicologico e in qualche misura romanticamente ispirato, è la fondamentale fonte di ispirazione per questo artista, sia dal punto di vista intellettuale che operativo. […]
NATHALIA LAUE
Pierluigi Isola. I colori della luce. Immagini dall’Italia, Galerie Nathalia Laue, Catalogo della mostra, Frankfurt am Mein, 2011
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