Tiziana D’Acchille
Che le piante, la terra, il mare, le montagne, i corsi d’acqua e le polle sorgive contengano uno spirito ‘abitante’ è un concetto alla base delle più antiche forme religiose, quelle animistiche. Tutte le correnti filosofiche, artistiche e letterarie che hanno posto al centro della loro riflessione il sentimento della natura e lo spirito romantico variamente definito con i termini di sublime, pittoresco, sturm und drang, e altri ancora, non hanno fatto altro che riferirsi sempre all’animismo primordiale. Un fondo di pensiero animistico è presente in parte in tutti noi: quante volte abbiamo pensato che un luogo fisico potesse conservare la memoria del passato, o che una pianta potesse rivelarci il proprio stato di benessere attraverso messaggi espliciti come la rigogliosità del fogliame o l’abbondanza dei fiori e dei frutti. Anche le cose, talvolta, sembrano celare un aspetto vitale: il magismo primario, non a caso, trasferisce sugli oggetti proprietà e peculiarità degli esseri umani, secondo un principio di analogia che accomuna ogni cosa del mondo visibile. Pierluigi Isola è un artista che possiede il dono raro di riuscire a cogliere l’aspetto animistico della natura nella sua versione ‘idilliaca’ e di sapercelo comunicare in modo intenso ma leggero, con mercuriale disinvoltura e continui rimandi a una conoscenza di carattere iniziatico.
Dalla prima produzione dell’artista relativa agli anni Novanta emerge infatti un simbolismo esoterico racchiuso nelle forme degli oggetti quotidiani e della categoria visiva del rebus, appunto. Per anni Isola ha raccontato la vita segreta degli oggetti nei suoi quadri “rebus”: nature morte con allusioni sottilmente enigmatiche, non improntate a una soluzione, ma a restare celate, tra le cose, appunto.
Dai rebus l’esercizio pittorico di Pierluigi Isola si è spostato verso la ricerca di un senso contemporaneo nel genere del paesaggio. Di questo paesaggio, bucolico e urbano, ancorché echeggiante maniere antiche, Isola è diventato l’interprete più sensibile e attento, non solo da un punto di vista meramente visivo ma, soprattutto, per quello che si trova celato dentro le apparenze. Le piante, gli alberi, i ponti, le strade deserte, i palazzi immersi nella luce ialina del tardo pomeriggio, tutto concorre nel suo mondo dorato, è davvero il caso di dirlo, a costruire un repertorio iconografico assoluto, apparentemente sospeso in una zona senza tempo. L’atmosfera arcadica dei Concerti campestri rinascimentali e degli Idilli settecenteschi riappare per una sorta di miracolo spazio-temporale nei paesaggi urbani romani, priva di ogni riferimento al grigiore e al caos delle strade del centro storico, che nelle opere di Isola è trasposto in una sorta di doppio speculare del mondo reale. In questo luogo fuori del tempo, che pure mantiene forme conosciute, personaggi enigmatici come il moderno Talete “armato” di regola ci mostrano che tutto è in sintonia, gli alberi come gli edifici, le foglie come le membra del corpo umano, le facciate degli edifici come le pagine di un libro. Tutto vive della medesima proporzione e tutto si muove secondo un ritmo armonico. Ecco, forse Isola è uno di quegli artisti che a ragione potrebbe affermare di aver visitato con il pensiero il mondo oltre il visibile e di avercene riportato, dipingendo, un esempio. Le opere in mostra, realizzate con meticoloso rigore, sembrano inneggiare a un’anima viva racchiusa dentro gli alberi e le vestigia del passato, trattenuta a stento dal movimento delle foglie e testimone di un passato millenario che giace ancora vibrante sotto le stratificazioni di terra e cemento della Capitale.
Ai margini del raccordo anulare di Roma e lungo le traverse delle vie consolari maggiori, troviamo una vegetazione varia e discontinua, frammista alle brutte case abusive e agli agglomerati suburbani che nulla hanno in comune con la monumentalità del centro storico o con la bellezza dell’euritmia architettonica. In questi luoghi, abbandonati dagli dèi e lasciati alla mercé di qualche spregiudicato costruttore, i monumentali alberi dipinti da Pierluigi Isola sembrano gli unici testimoni di una bellezza senza tempo, secolari e immutati dalla notte dei tempi. Pini, pioppi, olmi maestosi, eucalipti fragranti, lambiti dalla luce dorata del tramonto, sono i messaggeri di una città che sta per comparire all’orizzonte, enorme e disordinata, polverosa e grigia. Uno dei dipinti in mostra porta il titolo emblematico di “Verso la città”: un grande albero, come un alfiere guardiano della porta, quasi a custodire il confine segreto tra visibile e invisibile, annuncia l’apparire delle case periferiche in lontananza e assiste alla corsa moderna dell’umanità verso la città. Sono paesaggi pre-urbani, posseduti da uno spirito eterno che non ha mai abbandonato templi e rovine, e che ha silenziosamente governato l’avvicendarsi di culti e divinità di cui si è ormai persa anche la memoria ma che, secondo le parole dell’artista, riemergono a tratti da un barlume di un anfratto, dal rumore del vento tra i pini marittimi, quasi a ribadire giocosamente la propria immortalità.
Oggi potremmo chiederci, dopo secoli ormai di non-pittura e di sperimentazioni ardite sui linguaggi più disparati e sulle tecnologie avanzate, quale sia la ragione del successo di un artista come Isola e perché riusciamo ancora a raccordarci con le sue vibrazioni interne. I suoi dipinti dialogano apertamente con la felice stagione del tardo Ottocento romantico e con la cifra inquieta del simbolismo tedesco, ma di quella inquietudine molto si è perso lungo la strada: resta solo una luce avvolgente che ci trasporta verso un luogo in cui l’aria è ancora respirabile, ai tempi in cui Böcklin e Corot riuscivano a sentire forte il profumo delle piante e a condividere la grandeur del paesaggio, quando la forza della natura si imponeva drammaticamente con tutto il suo potere seduttivo su quelle anime in grado di tradurre la lingua delle cose viventi. Da allora, da Giorgione a Gainsborough, dai Deutsch Römer a Barbizon, da Turner a Vespignani e Guccione, passando per le scuole romane, fino ad arrivare ai contemporanei ‘paesaggisti urbani’, il sentimento della natura non ha mai davvero abbandonato le nostre corde, ed è forse questo il motivo che ancora ci avvicina e ci fa riconoscere come familiare la pittura di Isola che, come un Ermes contemporaneo, è il viandante che con sottile arguzia ci sussurra: “Et in Arcadia Ego”.
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