Nello stesso contesto ciò che sovrasta è l’attitudine dell’artista e, ancor più, il suo mondo interiore ed esteriore, a volte la sua schizofrenia, la sua liquidità, la sua sfida.
E, dunque, zoomando à rebours, sono i suoi stessi neuroni che coniugano pensieri ed emozioni ad immagini evocative, distrofiche o catartiche. Da qui inizia il processo di metabolizzazione collettiva dell’immaginario privato e intimo dell’artista che si espone in forme e colori. Così come si instaura il meccanismo empatico attraverso cui l’opera sdogana tempi e geografie, attraversa pensieri ed esistenze. Le sfiora o le scheggia, a volte le turba. L’economia dell’opera sta nella sua capacità libidinale di intervenire nella psiche dell’altro da sé, pervadendo i pensieri, minandone le certezze, capovolgendo verità e, soprattutto, delineando un orizzonte obliquo del mondo, spaesandone la percezione.
La nobile missione che ha connotato le avanguardie e le post-avanguardie artistiche, nella sua finita interezza, tendeva a sovvertire lo status quo percettivo del mondo sensibile. Poiché è attorno all’inseguimento dell’invisibile che l’arte circumnaviga da sempre, piuttosto che sul vuoto declinarsi delle categorie stilistiche.
E dunque appare evidentissimo come, nella sua specificità, l’opera d’arte e l’artista che la genera non possono essere condizionati da dissertazioni formali, da categorie apodittiche che convergono nel convenzionalismo temporaneo ed effimero di correnti e tendenze che ne ingabbiano la creazione e il suo furor.
L’arte deve rimanere insitamente anarchica per non allentare il suo stato di tensione.
Il viaggio immaginario a cui le opere di Maurizio Pierfranceschi mi conducono non esula da questa riflessione in cui, il contesto emotivo è dato dal suo mondo immaginifico e dalla sua prospettiva che tende a depistare i codici di una narrazione assertiva. Il suo è un fare/disfare la sembianza di un esistente solido, un continuo vituperare la forma nella sua ponderabilità per spostarla nel magma caotico della continua metamorfosi.
E, nei passaggi e nei riti che la forma intraprende, metamorfosizzandosi, lascia dei sedimenti e dei pulviscoli che la stratificano. Questi strati intimi e affettivi intessono una tela di fossili mnemonici, di ritrovamenti e insieme di scoperte. In realtà Pierfranceschi attiva un meccanismo duplice e quasi automatico che gli consente di recuperare i frammenti di un tempo passato per costruire un non-tempo in cui fondere colloidalmente una infinita polluzione materica, suggestiva e culturale. Sotto la materialità apparente delle opere ristagnano gli istinti, i dissapori, le asprezze e le dolcezze dell’io autoriale. Ed è evidente che essi, così invisibili all’occhio, diventano invece accessibili alla pelle e allo spirito di chi li legge.
Pierfranceschi affida, da sempre, tale responsabilità alla pittura poiché probabilmente essa costituisce l’imprescindibile certezza della sua rappresentazione del mondo, l’unico vero filtro connettivo con l’esistente.
In terre limose è la metafora del meccanismo metamorfico che connota la proprietà rigenerativa della natura e che sottolinea l’alchimia del limo, sostanza organica vivente in trasmutazione. E, impercettibilmente, natura e cultura si aggrovigliano sotto i passaggi materici dell’artista.
Tutte le opere in mostra, infatti, ripercorrono l’iter dell’invisibile in una concertazione epidermica di paesaggi e architetture antinarrativi che, in quanto tali, potrebbero apparire ideali. È esattamente il contrario dato che l’accumulazione mnemonica che ognuno di essi immagazzina in sé delinea l’accumulazione del vissuto dell’artista.
Il procedimento è quasi paradossale poiché la sedimentazione dei dati all’interno dell’opera di Pierfranceschi viene man mano assottigliata, quanto più si incrementa di umori e di tempo tanto più viene limata nella sua epidermide. Gli elementi narrativi si elidono per sottrazione e i paesaggi e le stesse architetture si susseguono sulla tela come schegge, labili tracce di una narrazione più complessa e di una soggettiività in continua trasformazione.
All’interno di queste campiture si profilano cieli plumbei che restringono l’orizzonte, tronchi di alberi nudi, montagne scoscese, arbusti filamentosi, acque stagnanti in una alternanza quasi cinematografica di inquadrature che vanno dal campo lungo al primo piano. E poi, subliminalmente, è possibile slittare tra allusioni, rimandi e in tutto ciò che la nostra cognizione della storia dell’arte e la reminescenza di essa riorganizza in ricorso inconscio. Kantianamente è la “cosa in sé” ossia la realtà fatta oggetto di rappresentazione che viene esperita in oggetto di visione. Le tele, infatti, insinuano dei paesaggi “disturbati” da profili volumetrici di architetture portanti, all’interno/esterno delle quali è facile scoprire l’inquietudine di corpi irrisolti. Scorrono silhouettes e ombre umane, qualcuna deposta per sempre nel segreto della natura come è il caso dell’affettivo Compianto. Tali figure incorporee e deformate, pure essenze, vengono appuntate nel paesaggio o allocate tra esili strutture architettoniche come a invertire la visione, a volte anche ironicamente. Carlo Emilio Gadda ne la Meditazione milanese, specificava:
“… la deformazione della figura comporta deformazione interna degli elementi colpiti; i quali non m’è dato di concepire se non pensando a grovigli o nuclei o gomitoli di rapporti, privi affatto di un contorno polito, e ciò contrariamente a quanto li raffigura la consuetudine pigra del pensiero comune.”
Insieme con esse si insinua il mistero che fa vivere le cose e dunque la dimensione metafisica di tale scenario.
Osservava il filosofo Merleau-Ponty che tutto il visibile è intessuto di non visibile poiché esso non rappresenta l’intera realtà. Esso non è semplicemente una lacuna della maglia del visibile ma qualcosa di più, è ciò che sottende il visibile come possibilità ontologica. L’invisibile, con cui inequivocabilmente abbiamo a che fare, è “… quel tessuto che fodera il visibile, lo sostiene, lo alimenta e che dal canto suo, non è cosa, ma possibilità, latenza e carne delle cose”.
Infine: proprio perché così apparentemente asciutte nella loro narrativa sono opere infide che richiedono scaltrezza percettiva per scoprirne l’humus che li ha combinati e ricombinati in un intreccio senza fine e senza conclusione. Gadda pensava che una moderna opera letteraria fosse una “cattedrale incompiuta”, uno spazio, appunto, che si rinegozia continuamente all’interno del “terreno vulcanico” sul quale viviamo.
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Con la materia e gli elementi Maurizio ha confidenza. L’acqua: vasche, piscine, pozzanghere; la terra su cui posano il piede i suoi camminatori.
Anche l’aria in cui dipinge il volo degli uccelli.
L’aria è pesante, rischiarata da una luce crepuscolare, di tramonto o di alba. L’alba in cui nascono le forme che si accampano nello spazio ridotto alle più elementari coordinate.
Si accampano con una presenza autorevole, addirittura solenne. Potrei chiamarla astanza, recuperando il linguaggio di una critica che aveva ancora occhi per la forma, non si accordava come adesso al metalinguaggio di una recita metaforica.
Le forme di Maurizio sono presenti, non metaforiche. Anche quando una striatura verticale di biacca in primo piano può ricordarci il Monaco in riva al mare di Friedrich, che, secondo Kleist, ci costringe a guardare con occhi senza palpebre, qui non c’è nessuna trascendenza: solo l’immanenza di forme elementari, che trascorrono l’una nell’altra, dall’uno all’altro regno. Dal fango all’acqua, alla foresta di legni trovati e assemblati che affollano il tavolo di lavoro.
E non posso dimenticare il bellissimo Compianto per la morte del nonno, dove le forme, persone, animali, piante sono una corale, che tocca corde profonde.
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