TIZIANA D’ACCHILLE
Al primo impatto con le tue opere emerge immediatamente la cura, l’attenzione particolare per l’aspetto compositivo e quindi formale che permea il tuo lavoro, tuttavia esso si appoggia a procedimenti realizzativi di notevole complessità che, a loro volta, nascono da una elaborazione concettuale profonda: vuoi spiegarci la genesi di alcune delle opere in mostra?
L’aspetto compositivo e formale, la cura e l’attenzione al particolare, che è il primo incontro con l’opera, non è l’unica sostanza che muove il lavoro. Piuttosto si tratta di individuare un linguaggio, una possibilità di dizione che desidera l’immagine nella sua forma migliore, il più vicino possibile alle ragioni del formarsi, a ciò che la costituisce intimamente.
Procedo come su due piani paralleli, simultanei: uno è il dettato del pensiero del lavoro, come il lavoro è pensato, le sue ragioni, fino alla soglia dell’immaginazione. Da qui, in un piano ulteriore, inizio a percepire la forma e si presentano i materiali necessari, attraverso cui questa forma entrerà in “atto”.
Queste fasi “inoperose” non sono inattive, perché intente a costituire un paesaggio operativo, che disegna gradualmente una sorta di mappa, un territorio dove si vanno definendo, per orizzontalità e profondità, una superficie e una geologia, cioè due indicatori di movimento.
Il primo si trova di fronte all’unità apparente della superficie, illumina il falsopiano dell’esistenza per coglierne l’effettiva molteplicità, la percezione di quei tratti identitari, tra regola e caso, che si incontreranno nel lavoro. Nel secondo movimento verso la profondità, invece, là dove comunemente si crede risieda l’essenza intima, costitutiva e biografica, del soggetto, per una sorta di inversione endoscopica incontro la necessità, l’urgenza e la responsabilità del linguaggio.
Parlerei a questo punto di uno dei cicli più significativi e fecondi del mio lavoro, i rotoli. Il rotolo è un nastro di carta avvolto a spirale intorno a un punto fermo e vuoto, motore immobile, che mi offre uno spazio già diviso in sé, ma che si dà come superficie apparentemente continua. Proprio per questa qualità della sua presenza, il rotolo mi permette di muoverlo, trattenendolo in continua tensione, tra unità e divisione. Dividere un’unità non per ricomporla ma per aprirla.
Avendo predisposto questo orizzonte si presenta la vera sostanza, il catalizzatore che mette in movimento tutte le componenti del lavoro, il suo soggetto, la parola. Scrivere una parola su un piano già diviso, ma apparentemente continuo, mi offre la possibilità, oltre il tremore della calligrafia, di presentarla e insieme di perderla attraverso dei movimenti metodici: arrotolare il rotolo di carta bianca, vergare la parola sulla superficie dei bordi compressi, per poi srotolarla. In questo modo la scrittura si disfa, riducendosi in tanti piccoli segmenti, che si alternano ritmati sul bordo del nastro.
La fase successiva è quella del riavvolgimento del rotolo, e della sua trascrizione come apertura nello spazio, ne parlerò dettagliatamente più avanti.
La fase operativa che accomuna i tuoi lavori è fortemente connotata dall’immergersi, dal situarsi in una dimensione temporale, o forse perfino atemporale. Qual è il tuo rapporto con il tempo?
Introduco questa riflessione sul tempo con uno scritto di qualche anno fa, che parla del tempo attraverso un’immagine legata alla natura: “Vorrei fare come la neve, che cataloga ogni distanza per archiviarla con misure nuove”. Come dire, c’è bisogno di esemplarità!
In questo testo la neve dice della natura e di una sua manifestazione stupefacente, per me ricca di memoria, una commozione dello sguardo e un brivido dei sensi.
Si tratta di erotismo, che mentre tocca trasforma, inventa l’amore che ha tra le mani.
Prossimità e distanza si tematizzano quasi come un vero soggetto. Misurare e archiviare il tempo in forma nuova, diversamente. Cosa può rendere evidente e possibile tutto questo, se non un atto fisico e concreto, di manipolazione della materia e della sua resistenza?
Ecco quale rapporto lega temporalità e materia nel mio lavoro. Una relazione amorosa, per contatto e per contrasto, che brama l’apparizione di un’altra forma, del tempo e nel tempo. Contemplare il tempo attraverso l’estensione esecutiva del lavoro, in atti silenziosi e appartati, persino clandestini, che conservano intatta la loro potenza, dilatati in questa estensione-estenuazione.
Il tempo lo sa! Lo avverto come un osservatore che interviene sempre nel discorso, entra nelle fibre di questo rapporto, conosce la forma delle cose prima del mio contatto, che arriva sempre troppo in anticipo o troppo in ritardo, e che non chiude mai alla possibilità “di-non”.
“Se la creazione fosse solo potenza-di-, che non può che trapassare ciecamente nell’atto, l’arte decadrebbe a esecuzione, che procede con falsa disinvoltura verso la forma compiuta perché ha rimosso la resistenza della potenza-di-non”.
Come potrei-non condividere questo pensiero di Agamben. Solo alla fine di un lavoro so come eseguirlo correttamente, perché nel suo svolgimento ho esperito che la maestria non è solo perfezione formale, ma la conservazione dell’imperfezione nella forma perfetta. Si da sempre inizio.
Il lavoro principale, che dà il titolo alla mostra, ha un riferimento forte alla figura materna, così come un’altra serie di opere era legata alla scomparsa di tuo padre. Qual è il ruolo e il valore della vicenda biografica nella tua produzione artistica?
Potrei iniziare ponendo la questione biografica, nel binomio etica-estetica, dalla parte dell’estetica. Ma come rischio, perché l’aspetto auto-biografico è troppo al corrente delle forme dei fatti che racconta, e non se ne distacca facilmente. Il rischio è, dunque, la replica, la narrazione orizzontale del fatto, in-forma di-fatti.
L’etica, invece, sembra risiedere su un piano più alto, quello della pluralità, di un orizzonte più aperto, dialettico, raggiungendo anche il perimetro sociale. Quindi è come garantita, in questa accezione, dall’essere fuori dalla portata di un’impronta troppo soggettiva.
Ma potrei affermare l’esatto contrario, perché in realtà è la loro presenza simultanea, l’intermittenza continua tra i due poli, che avverto come responsabilità della forma.
La necessità di un movimento continuo da un polo all’altro, che sia sociale o autobiografico, di presentazione o rappresentazione.
È il non aderire che mi investe, la non fedeltà, lo scarto tra la matrice e il suo calco. Per questo ogni scrittura è sempre una tra-scrizione, perché migra dalla matrice al calco, e non può non registrarne le irregolarità.
Il dato autobiografico, che sempre accompagna il mio lavoro, e in particolare Madre Ammirabile, giunge da un dettato esistenziale che si presenta con urgenza, ma che non determina di per se l’aprirsi al lavoro. È vero che gli accadimenti della vita sono i primi a presentarsi come soggetti, trasportati dai sensi, che ne stabiliscono inevitabilmente la portata e la durata.
Ma questi fatti sono come delle immagini di partenza, perché appaiono troppo fermi e finiti in sé. Bisogna aprirli, andare più a fondo, calarsi con loro, trasformarli da forme pregresse in forme presenti, come se si trattasse di parlare del lutto della loro immagine.
Bisogna perdere la cronaca, la gerarchia, la successione, “il dramma del reale”, e spostare l’attenzione su ciò che si trova dopo. Il lavoro ci mostra così quello che deve ancora accadere, quasi fosse un “presagio pregresso”.
Si apre un nuovo orizzonte di immagini mai viste davvero, mai viste dal vero ma davvero visibili. Immagini residuali che, come scorie, generano per accumulo e montaggio inatteso nuove forme, che assediando la signoria dello spazio e la gerarchia del tempo, violano l’abitudine cartesiana dello sguardo, non più separate dal corpo.
Mi viene in mente Foucault quando dice “non si tratta di legare l’attività creatrice di un individuo al rapporto che egli intrattiene con se stesso, ma di legare questo rapporto con se stesso a una attività crearice”.
Madre Ammirabile testimonia più di ogni altro lavoro la dedizione temporale che è stata necessaria per raggiungerne il compimento. Ma contemporaneamente registra tutti quei passaggi, eseguiti lentamente, del suo allontanamento e del mio, della nostra estraneità conquistata a forza di presenza. Resta la materia in forma di vita.
In diverse opere si rintraccia la ricerca di una “fusione” tra significante e significato, in cui il significante, ad esempio la parola tracciata, si scompone e si ricompone per assumere forme nuove, in cui rimane solo l’eco del testo originario. Quanto è importante per te questa perdita di valore semantico, ovvero qual è l’elemento rivelatore, se esiste, attraverso il quale percepisci che la ricerca di questa nuova struttura può considerarsi conclusa?
Riprenderei la descrizione delle fasi operative del rotolo là dove l’avevo interrotta. Argomentando il rapporto del mio lavoro con la dimensione temporale, mi ero fermato alla fase in cui scrivo la parola sulla superficie del nastro arrotolato, quella falsa superficie fatta di bordi compressi.
Ora inizia la fase decisiva, in cui avviene la trasformazione della parola scritta. Srotolato il nastro,
la parola si disfa in tanti segmenti bianchi e neri che si alternano sul bordo. Riarrotolandolo, il registro originario della scrittura si perde, trasformandosi in una nuova immagine.
In Madre Ammirabile questa alternanza delle tacche bianche e nere viene trascritta, dal bordo dei novanta metri di carta, su novanta metri di corda. A questo punto posso iniziare a rivestire la corda con dei fili da ricamo di vari colori, seguendo le misure registrate precedentemente. La scelta della successione dei colori non rispetta la scansione bianco-nero originaria della scrittura, ma si abbandona a una sorta di piacere pittorico legato al desiderio e alla suggestione del momento.
Questo aspetto produce uno straniamento ulteriore del codice, perdendo persino la distinzione tra il segno e la superficie. Questi passaggi, o metamorfosi, permettono alla parola di aprirsi in un’altra forma, di irradiarsi nello spazio come un riverbero sonoro.
L’esito delle tue prassi operative, proprio per la loro struttura logico-matematica è, spesso, a livello formale, vicino a espressioni artistiche che dialogano con la natura intrinsecamente numerica della materia. Quanto c’è di intenzionale in questa ricerca di “ordo ab chaos” gestaltico, quanto ti interessa raggiungere un certo livello formale ritmico, o è una ricaduta inevitabile, per così dire un effetto collaterale del tuo bisogno di cercare un momento epifanico, partendo dalla realtà?
L’immagine deve apparire. Perché ciò avvenga è necessario abbassare la volontà compositiva, distinguendola dal procedimento del lavoro. La forma potrà ri-affiorare solo attraverso dei gesti e delle regole “di allontanamento”, che innescano un meccanismo necessario alla materia per compiere questa metamorfosi indispensabile.
Come? Attraverso un “allontanamento organizzato”, una “strategia del ritrarsi” atta a depotenziare l’evidenza del gesto sulla materia, così come le ho incontrate al primo contatto.
Questo modo di procedere mi consente di superare le rigidità del binomio causa-effetto, gesto-forma, quesito-risoluzione, affidandomi il compito di essere solo un “perfetto esecutore” (il “vivente anonimo” di Agamben), governato dall’esattezza e alleato del caso, che organizza spostamenti, segmentazioni, scomposizioni e ricomposizioni, con movimenti precisi e ritmati da un ordine che è anche numerico.
Perché un atto appaia accidentale deve essere esattamente organizzato attraverso la regola che di volta in volta scopro, e negozio, sulla superficie sensibile del lavoro, già intimamente predisposta ad essere modificata attraverso scomposizioni e ritessiture.
Vederti al lavoro fa pensare all’intensità di concentrazione di un monaco buddista che realizza il suo Màndala, ma c’è per te un valore laico, per semplificare potremmo dire “occidentale”, nel tuo agire? Riformulando la questione: la Biennale d’Arte di Venezia appena inaugurata si interroga sui futuri possibili di un mondo sempre più complesso, attraversato da profonde crisi e contraddizioni. C’è nel tuo agire qualcosa che credi possa rispondere a questa sensazione di perdita di valore/i, o questa “funzione sociale dell’arte” è meno importante rispetto ad una semplice dimensione emotiva primaria?
L’arte non è salvifica. Può solo essere esemplare. Gran parte dell’arte contemporanea, pretendendo di indicare il presente, e persino le direzioni future del mondo, fa solo della segnaletica che non porta da nessuna parte.
Spina (PG), maggio 2015
Un ringraziamento particolare ad Alessandro Piergallini che, in questo periodo, ha intensamente condiviso con me tante delle questioni che ho esposto in questo testo.
SC
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