Gabriele Simongini
Marcel Proust, “I Guermantes”
“Rimani presso l’origine. L’origine è la meta”, scriveva Karl Kraus. “Bisogna contemplare il mondo da un punto di vista originario”, gli faceva eco Paul Klee. Parole profetiche tanto più oggi, in tempi che scambiano l’idea di progresso con un modello evolutivo esclusivamente tecnologico, umiliando e seppellendo nell’oblio qualsiasi aspirazione spirituale, sia pur intesa in senso ampio. Così, anche se in modi diversi e con percorsi dissimili, le opere di tre artisti come Vasco Bendini (Bologna, 1922), Lorenzo Guerrini (Milano 1914-Roma 2002) e Sandro Sanna (Macomer, 1950) svelano la necessità di una forma originaria che abbia una sua verità interiore, autonoma dalle mode e dal conformismo. Una forma scarnificata che possieda un nocciolo generante, con una riduzione al minimo delle seduzioni cromatiche, tutt’al più articolate, in ogni opera, su due-tre colori e nel complesso della mostra riassumibili, per sommi capi, in bianco, nero, oro ed argento. I colori degli opposti primigeni, la luce e le tenebre, il giorno e la notte, il sole e la luna.
Accolte dalla notte primordiale, tramata di riflessi argentei, dei quadri di Sandro Sanna, nella sala interna della Galleria Porta Latina dialogano le opere fluide (il divenire?) di Vasco Bendini e quelle immote (l’essere?) di Lorenzo Guerrini, due grandi solitari, artisti ascetici ed intransigenti, volti esclusivamente ad inseguire le ragioni interiori della propria ricerca. Nelle carte di Guerrini, potenti come le sue sculture, c’è sempre la struttura verticale dell’uomo, non di rado a braccia aperte, che fa di se stesso architettura e presenza tellurica primigenia, colma di forza compressa. È la memoria essenziale dell’uomo che tende ad un’immobilità originaria, radicata nella terra ma capace di captare le energie cosmiche. Le carte e le sculture di Guerrini, pur fondate su un’instabilità spaziale nata dalle inquietudini contemporanee, cercano di proporre un dialogo purificato di quell’uomo originario con l’armonioso silenzio della natura, col fine di arrivare nel cuore dell’immutabilità dell’essere: “A forza di scarnire sono alle soglie dell’anima”, ha scritto Guerrini in un suo appunto del 6 giugno 1982. Così, per lui scolpire significa anche recuperare le origini stesse dell’atto scultoreo, con un azzeramento del tempo storico che comunque è passato per un confronto continuo con le problematiche della scultura contemporanea, soprattutto quella costruttivista. Per Guerrini, la scelta di scolpire la pietra ma anche di dipingere plasticamente le carte è stata, come ha detto lui stesso, “un ulteriore passo verso le origini. La pietra è l’intransigenza morale. È severità. Cercavo qualcosa che fosse al di sopra dei tempi e delle mode”. È un mezzo per tendere verso quello che lo scultore ha definito “lo spirito cosmico”, “il silenzio primordiale verso il quale sono proteso. È purezza di forme e la mia unica risposta contro la civiltà tecnologica”. Guerrini stesso ha spiegato di voler “fare opere grandiose, forti, austere, rivelatrici di misteri, ma il tutto con discrezione e raggiungendo, dove è possibile, il magico: come se il tutto fosse nato quasi da sé naturalmente. Opere più ingenue che volute, e che del mondo visibile abbiano le qualità e le caratteristiche ma portate come in alto, in una sfera spirituale, decantata e magica”.
Opere nate da un inesausto e sincero ascolto interiore scortato solo da intransigenza e rigore, come è ben evidente nelle gouaches esposte alla Galleria Porta Latina. Opere in cui passato, presente e futuro si riuniscono in un andamento circolare, come avviene nel monolite quasi guerriniano di “2001 Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, film epocale che, nelle parole del suo regista, è “un’esperienza visiva, che aggira la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio”: forse questa è la lettura più giusta anche per le carte dello stesso Guerrini. Non a caso, Lionello Venturi notò che a prima vista le sue sculture “sembrano macigni naturali, ma poi ci si avvede che sono immagini umane, vitali e drammatiche, idoli nella preistoria e capaci di vivere in un avvenire senza fine”.
Si basa invece su una fluidità in espansione l’aspirazione di Bendini a “ritrovare un codice di comunicazione archetipa”. Con un’inesausta capacità di rimettere costantemente in discussione i risultati acquisiti attraverso una costante autoanalisi, lo stesso Bendini ha precisato con illuminante chiarezza: “Il senso del mio operare può racchiudersi in questa semplice definizione: stabilità dell’instabile”. L’unitarietà di fondo in un percorso che riesce a dare palpitante permanenza ai magmatici sommovimenti interiori (“Insieme che visualizza il mio sognare, il mio meditare, il mio sentire correlati in un flusso materico”, ha scritto Bendini) sta proprio nel continuo disvelamento di una dimensione spirituale originaria che si è liberata di tutte le sovrastrutture e di ogni condizionamento. Sublime visionario della luce e del vuoto, egli è sempre di più, a novantun anni da poco compiuti, il pittore degli impalpabili spazi fatti di bianchi, di grigi e di neri come non sono dipinti da nessun altro. È il visionario dell’origine, dell’alba archetipa che diviene forma e respiro sulla tela, dell’“immagine accolta”, come dice il titolo della serie di opere iniziate nel 2006 ed a cui appartengono anche quelle ora in mostra. Immagine accolta dopo l’attesa e mai cercata, progettata, costruita. Con un’ascetica opera di annientamento dell’inessenziale, Bendini va dritto nel cuore di una dimensione originaria che affiora tra il bianco inteso come “silenzio della nascita” (per dirla con Kandinsky) e il nero di una notte colma di luce ed energia, prima della vita. Andando al di là dei limiti apparenti che sono connaturati ai mezzi pittorici, Bendini esplora la propria interiorità ed il proprio pensiero per accogliere la rivelazione di uno spazio nascente, senza divisioni né separazioni. Tutto il suo percorso sembra dare ragione a quanto mirabilmente intuito da Werner Karl Heisenberg, Premio Nobel per la Fisica nel 1932, nonché uno dei fondatori della meccanica quantistica: “le stesse forze che determinano l’ordine visibile del mondo, l’esistenza e le proprietà degli elementi, la formazione dei cristalli, la nascita della vita, può darsi siano all’opera anche nel processo creativo della mente umana”. Così, le opere recenti di Bendini sembrano fatte di niente, solo di un soffio luminescente e abbagliante che appare come esito distillato di un percorso lunghissimo e ossessivamente concentrato, alla ricerca del “miele dell’invisibile” filtrato attraverso la luce del suo pensiero: egli respira così come dipinge, o meglio il suo respiro più profondo e vitale si identifica nell’atto stesso del dipingere.
Nel mondo c’è un battito incessante di cui facciamo parte, volenti o nolenti. Lo troviamo ovunque, in natura, nell’ondeggiare degli alberi al vento, come orgogliosi ponti fra terra e cielo, nelle danze ritmiche degli uccelli che volteggiano secondo proprie coreografie, nel laborioso andirivieni delle formiche, nel moto inesausto del mare, nel respiro di ogni creatura ed anche nella nostra ansiosa agitazione e frenesia quotidiana. Questo battito vorticoso ed inesausto si fa tutt’uno, nella pittura “nera” e dai riflessi lunari di Sandro Sanna, con gli echi dell’immaterialità digitale, della grafica tridimensionale e in 3D. Senza dimenticare il pur rispettoso dialogo a distanza, fondato sul continuum spaziale e sulla modularità variabile, con le “Compenetrazioni iridescenti” (1912-1914) di Giacomo Balla, per un’aspirazione all’infinito che prende avvio da un paziente approfondimento del reale, rifuggendo qualsiasi verità troppo arcana o trascendente. Ne viene fuori, nelle opere di Sanna, quasi una sorta di concretizzazione dello spazio di Einstein, che non è più qualcosa di diverso dalla materia ma che è invece una delle componenti “materiali” del mondo, un’entità che ondula, si flette e si incurva. Del resto, ha scritto Carlo Rovelli, “le sconfinate distese di spazio interstellare, con le ‘onde gravitazionali’, si increspano come la superficie del mare”. Ecco allora le ondulazioni in espansione, concatenate e notturne, di Sanna che evocano connessioni serrate, primigenie e strutturali fra innumerevoli elementi visibili ed invisibili che tutti noi consideriamo invece slegati, casuali, effimeri. “Da un ordine all’altro – ha scritto René Guénon – tutte le cose si concatenano e si corrispondono per concorrere all’armonia universale e totale”. Volendo andare al di là di qualsiasi esoterismo, resta valido anche quanto notato da Enzo Mari: “tutti i fenomeni della natura sono organizzati secondo serie di particelle uguali che si organizzano in strutture modulari che variano gradatamente, secondo schemi elementari, fino a formare nuove unità modulari”. Nelle opere recenti di Sanna un vortice misterioso e primigenio squaderna e sventaglia in una spazialità virtualmente tridimensionale forme quasi modulari, identificabili come strutture vitali primarie ma anche frattaliche, autosimilari. Enigma del primordio, presunta certezza scientifica ed attrazione dell’immaginario tecnologico convivono felicemente in questi lavori, con sorprendente continuità.
Sanna, Guerrini, Bendini. La notte, l’essere, il divenire.
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