Lorenzo Canova
Scolamiero riflette infatti su un tema così arduo attraverso un lavoro del tutto lontano da ogni tentazione descrittiva e illustrativa, preferendo un’opera complessa per i suoi nessi strutturali, ma di rigorosa leggerezza nella sua fase esecutiva. Va detto che Scolamiero trova nella sua idea di leggerezza un senso profondo molto vicino a quello che Italo Calvino ha formulato nelle sue Lezioni americane che, non a caso, accostava al valore della leggerezza quello dell’esattezza. Leggera ed esatta appare infatti la pittura di Scolamiero, scaturita da una severa disciplina degna di un artista o un pensatore orientale, in cui la vibrazione spesso apparentemente incerta della sottile materia pittorica si salda alla luce in un esito di splendente e folgorante chiarezza.
Scolamiero è giunto ai risultati di questo ultimo ciclo attraverso un lungo percorso di purificazione, in cui la meditazione interiore sembra infondere un’energica vitalità all’impalpabile ma possente ossatura della tecnica e dello stile, in un lento viaggio interiore dove la materia del mondo viene lentamente assorbita e rarefatta attraverso l’archetipa forza della pittura che interpreta e trasforma la realtà apparente delle cose.
L’artista tocca così il vertice di una sintesi coerente e bruciante, in cui la pittura cinese e il segno giapponese si uniscono alla potenza architettonica delle architetture classiche, dove ogni elemento ornamentale viene assorbito e trasformato in una presenza arcaica e futuribile che irradia il suo splendore come un’apparizione di lampi nella coltre spessa e viscosa della notte.
Scolamiero attraversa difatti Oriente e Occidente, percorre il dinamismo futurista e la plasticità metafisica, il materismo e la gestualità segnica dell’informale e della pittura di calligrafia cinese e giapponese, evoca ruderi romani e giardini zen in un discorso pittorico serrato e intensissimo.
Il recentissimo ciclo Senza permesso in un campo si articola in questo modo attraverso il paradosso di un ossimoro, presentando al contempo una struttura compositiva di lettura quasi filmica nel suo sviluppo spaziale che sembra aprirsi nel tempo, e la fissità del nitore assoluto di una rivelazione che ci manifesta gli oggetti nella loro vera natura. Le pietre, gli steli e le foglie si sovrappongono pertanto non nella loro descrizione realistica, ma nella loro essenza quasi atemporale, liberando il volto misterioso di una natura archetipica che si mostra nella scabra e potente nudità, in una luce accecante che esplode come un lampo nell’oscurità.
La pittura di Scolamiero si anima dunque di un fermento inarrestabile, si comprime nelle stesure dei bruni e si spalanca nel chiarore delle zone risparmiate in cui la pittura opera attraverso la forza dell’assenza e della sottrazione. Nel suo confronto con la pietra, l’artista si scontra quindi con la materia opaca del mondo rischiarandola in modo michelangiolesco “per forza di levare”, dando alla pittura la potenza dello scalpello che trova il disegno delle cose all’interno del blocco di marmo. In questo viaggio di sublimazione, il pittore allora si cala fino alle ombre luminose delle sue pietre, liberando la loro sostanza da ogni contingenza e mostrandone il lato metafisico e il volto spettrale, come avrebbe detto Giorgio de Chirico.
Nella sua discesa verso il centro profondo della natura e del suo primordiale stato minerale, Scolamiero scolpisce così con il pennello e con lo straccio la materia bituminosa di una terra che muore e si rigenera costantemente, rialza il muro abbattuto e originario che circoscriveva il mondo, ritrova il primo gesto di ordine umano all’interno del creato, rifonda le pietre della perfezione del discorso dalla fanghiglia delle parole incoerenti per ricomporre infine il disegno e il progetto segreto del nostro Eden perduto.
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