Tiziana D’Acchille
Esiste un filone delle scienze umane e in particolare della nuova scienza del comportamento che nelle sue accezioni estreme ha portato – e non è chiaro se queste conclusioni siano al momento ancora accettabili – a considerare l’attività artistica come una sorta di flusso di sfogo non solo per gli impulsi creativi, ma anche, opportunamente sublimati, per gli impulsi criminali. Basti pensare ai nuovi e sempre più diffusi metodi terapeutici di supporto alla cura del disagio psichico, la cosiddetta ‘arteterapia’ e a tutte le sue diverse declinazioni che assumono, sempre e comunque, il presupposto che l’attività artistica in genere sia un metodo efficace per convogliare urgenze distruttive all’interno di un manufatto o di un’“azione” artistica. Una simile lettura del processo creativo, ancorché mutuata dalla visione romantica che definisce l’artista come un individuo parzialmente posseduto da forze a lui stesso sconosciute non sempre trova riscontro nella realtà dei fatti e, soprattutto, nella pratica del ‘fare’ artistico.
C’è però un segmento preciso della storia dell’arte contemporanea che più di ogni altro sembra avvalorare l’ipotesi del processo creativo come esito virtuoso di una qualche forma di disagio, ed è proprio la performance e la sua più audace ramificazione, la body art.
Ai tempi della sua teorizzazione, sul finire degli anni sessanta, la performance fu vista come un riappropriarsi di una funzione sciamanica da parte dell’artista, funzione che si era persa addirittura dai tempi dell’invenzione del supporto dell’opera d’arte. Tutta la storia dell’arte occidentale fu letta come un progressivo predominio di azioni ‘autoritarie’ da parte dell’artista che lo avevano portato ad abbandonare il suo ruolo di tramite con una realtà superiore, divina. Si richiamarono pratiche ancestrali e riti iniziatici in cui la coscienza subiva profonde alterazioni rispetto alla realtà sensibile. Uno dei metodi utilizzati per provocare l’alterazione degli stati di coscienza fu l’assunzione sistematica di sostanze psicotrope, mentre gli interventi diretti sul corpo, di matrice violenta e/o cruenta divennero mezzi altrettanto efficaci per l’induzione di uno stato percettivo amplificato e potenziato.
Franko B è stato, a partire dagli anni ottanta, uno degli interpreti più selvaggi e autorevoli della body art. Le sue performance cruente ne hanno segnato definitivamente il passaggio da una forma di rebel art confinata entro la scena underground alla consacrazione nel novero delle forme artistiche contemporanee universalmente riconosciute e accettate.
Oltre al grande contributo dato in questo campo, Franko B ha spaziato dalla pittura alle installazioni e alla fotografia. Negli ultimi anni la sua attenzione si è concentrata su soggetti particolari come gli homeless, i giovani soldati, personaggi fragili ma protagonisti del nostro tempo. Perché intitolare questa mostra ‘Serial killer’? Perché, e sono proprio Franko B e Thomas Qualmann a volerlo sottolineare, un artista condivide con il criminale seriale più di un aspetto. La solitudine nello studio, ore e ore trascorse quotidianamente nella manipolazione dei materiali, la meticolosa pianificazione del lavoro, la catarsi dello show. Nel caso di Franko B l’acting out delle vicende emotive personali si è tradotto, sin dai suoi esordi, in azioni performative spesso cruente e dissacratorie, che hanno avuto per oggetto il suo stesso corpo, divenuto nel corso degli anni una sorta di palinsesto vivente dal quale sono via via emerse stratificazioni dolenti e segni ossessivamente ripetuti. Artista ‘figurativo’ per sua stessa tenace definizione (I am essentially a painter who also works on performance), muove i primi passi nell’ambiente dei locali underground, in primis londinesi, dove le pratiche estreme sono il linguaggio corrente. Le sue prime, sconcertanti, performance lo vedono nudo e coperto del suo stesso sangue, in un richiamo alla grande stagione performativa degli anni sessanta e settanta che ha portato all’attenzione della scena mondiale artisti come Gina Pane, e per alcuni aspetti i componenti del Wiener Aktionismus. Le sue vicende biografiche, avvincenti e tragiche al tempo stesso, trovano un giusto parallelo narrativo nelle performance, nelle azioni autolesive, talvolta di notevole forza drammatica, ma anche nel lirico e delicato repertorio di immagini descritte nelle opere pittoriche.
In ‘Serial killer’ il sangue è ormai solo evocato dalla leggera presenza di sagome di giovani uomini (soldati, adolescenti) spesso còlti nell’atto di subire o di esercitare azioni costrittive. Forzati alla violenza, con lo sguardo ancora bambino e i lineamenti delicati, questi innocenti assassini sono descritti solo dal profilo della loro sagoma, ottenuta attraverso un paziente lavoro di ricamo sulla tela grezza, quasi a sottolineare con il gesto ripetitivo dell’ago che fora la superficie del quadro quell’attitudine compulsiva richiamata dal titolo.
La medesima attitudine riscontriamo nelle opere di Thomas Qualmann, giovane artista emergente inglese che qui rappresenta bene il senso dell’ossessiva ripetitività nella serie di carte a grafite in bianco e nero. Quello con Franko B è un sodalizio esistenziale, prima ancora che professionale, che in questa occasione trova un suo punto di incontro-confronto.
Le opere su carta di Qualmann sono l’esito della sua ultima ricerca, iniziata già da diversi anni, sulle infinite possibilità visive ottenute dalle diverse angolazioni percettive di una stessa superficie. La sua vicenda artistica rivela un interesse da vero e proprio investigatore per le molteplici varianti del ritmo frattale di elementi naturali come, ad esempio, un fiocco di neve oppure una figura geometrica.
In ‘Serial killer’ il ritmo e l’alternarsi dei bianchi, dei neri, dei grigi, delle opere esposte ripercorre a gradazioni e dimensioni crescenti quasi un tracciato mentale dell’artista che sembra esercitare l’azione di uno sguardo amplificato al microscopio.
Le texture che Qualmann disegna accuratamente in sequenze macro-microscopiche sono in realtà i suoi mandala personali, i rifugi del pensiero, i sicuri ingabbiamenti dell’angoscia.
In questo senso il carattere di ripetitiva metodicità arriva a toccare vertici di vero e proprio virtuosismo: ogni singolo elemento delle scacchiere di Qualmann è realizzato con inchiostro nero differentemente diluito e questo gesto è ripetuto centinaia di volte, sempre con la stessa meticolosa precisione. Questi lavori così devotamente descritti fin quasi all’impossibile dialogano per contrasto con l’essenzialità delle opere di Franko B, pur nella diversità del linguaggio.
Due artisti, in conclusione, accomunati dalla necessità di dover vivere accompagnati per sempre dall’urgenza della creazione, dalla forza rigenerante del ciclo di morte e rinascita dell’opera d’arte, dall’ineluttabilità del proprio destino di serial killers finalmente risolti.
Since the eighties Franko B has been one of the wildest and most authoritative representatives of Body Art. His bloodsoaked performances turned Body Art from a sort of rebel art confined to the underground scene into a universally recognised and accepted contemporary artistic expression. In addition to the great contribution made in this field, Franko B’s talents have ranged from painting to installations and photography. In recent years his focus has been on specific subjects like the homeless and young soldiers, fragile protagonists of our time.
Why call this exhibition Serial Killer? Because as Franko B and Thomas Qualmann are keen to emphasise, an artist has several things in common with a serial killer. The solitude, the many hours spent in the daily manipulation of materials, the meticulous planning of the work, the catharsis of the show.
In the case of Franko B the acting out of his personal and emotional events translated early on into performing often bloody and irreverent actions with his own body as the object. In fact, over the years his body has become a living palimpsest upon which painful stratifications and obsessively repeated marks have gradually emerged.
He calls himself a figurative artist “I am essentially a painter who also works on performance”, and started off in London’s underground scene, where such extreme practices are prevalent. His first disturbing performances see him naked and covered in his own blood. They remind us of the great performing era of the sixties and seventies, which brought artists such as Gina Pane, and to a certain extent the members of the Wiener Aktionisms, to the international stage.
His life story is enthralling and tragic at the same time and finds a parallel narrative not only in his performances and in the self harming actions which are sometimes strongly dramatic, but also in the lyrical and delicate images of his paintings.
In Serial killer blood is by now only evoked by the faint presence of silhouettes of young men (soldiers, teenagers) often caught in the act of enduring or performing coercive actions.
These innocent killers, with childlike eyes and delicate features, are forced to violence and depicted as killers only through the outline of their silhouettes. The artist achieves this with painstaking embroidery on the raw canvas, and the repetitive gesture of the piercing needle seems to emphasise the compulsive attitude implicit in the title.
The same attitude can be seen in the work of Thomas Qualmann, a young and emerging English artist, who effectively portrays the feeling of obsessive repetition in his series of black and white graphite works. His association with Franko B is not just professional but also existential and in Serial Killer the two artists come together and confront each other at the same time.
The work on paper by Qualmann is the outcome of his latest research on the endless visual possibilities obtained by the different angles of perception in the same area. His art reveals the interest of a researcher for the multiple variants of the fractal rhythm of natural elements, such as a snow flake or a geometrical shape.
In Serial killer the rhythm and the alternation of whites, blacks and greys suggest Qualmann’s mental journey viewed through a microscope. Qualmann’s textures are accurately drawn macro-microscopic sequences; in reality his personal mandalas, the shelters of his thoughts and the safe cages of his anguish. His repetitive methodicalness becomes virtuosism: every single element of Qualmann’s chessboards is achieved with black ink, differently diluted and repeated hundreds of times with the same meticulous precision.
Despite the contrasting mediums and styles of the artists, their works flow together and achieve a unifying dialogue. The two artists share a need to live for their constantly evolving creative process, through which their fate as serial killer is finally placated.
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